Qual'è il filo più sottile che separa il pudore dall' ingenuità, la delicatezza dalla leziosaggine, la poesia dalla favoletta? E' il problema riproposto continuamente da questo film di un nome assai celebre della critica europea, uno dei santoni dei tempi delle Nouvelle Vague di Godard e compagni, redattore - capo di quei "Cahiers du Cinema" che lanciarono un po' dappertutto il "cinema da autore".
Un po' come Truffaut, forse con minore personalità, fortuna o abilità, anche Doniol e passato da uno stile critico intransigente, sovvertitore di valori e raziocinante ad uno stile di cinema forse altrettanto di testa, ma comunque teso alla ricerca di una certa quale semplicità, di una verità di immagini e di sentimenti, di una immediatezza neo-romantica che crea non pochi e curiosi contrasti con i toni di allora. Comunque sia l'origine, è proprio la semplicità, il gusto perduto per un prodotto finito genuinamente, artigianale quasi, il sapore di certe cose andate perdute in momenti di altre preoccupazioni che il cinema di Donioli rincorre, e che costituisce, nei momenti migliori la grazia dell'opera.
Certo, in queste atmosfere che si vorrebbero istintive e dirette, urtano maledettamente certe riflessioni cinematografiche che spuntano, si direbbe malgrado la volontà del regista, dietro alcune immagini. Certi riferimenti estetici, che rompono il ritmo, e la credibilità del tutto. Restando però alle cose migliori del film, ala scioltezza del dialogo, a certi accostamenti con la musica, all'uso sapiente del paesaggio, LA MAISON DES BORIES vale proprio per quel sapore immediato fresco, per quel suo tono assai raro nel cinema d'oggi.